10.3 Le riforme di Solone
In tali condizioni si mantennero accese le lotte sociali; esse ebbero requie solo nel 594 a. C., quando salì all'arcontato il sapientissimo Solone, per il quale lo Stato migliore era quello in cui il popolo obbedisce naturalmente ai capi e i capi obbediscono alle leggi.
Solone, uno dei sette savi della Grecia, pur essendo nobile di nascita, aveva innato il senso della giustizia e amava il popolo. Le riforme da lui promosse, però, non riconobbero a tutti i cittadini l'uguaglianza assoluta dei diritti, secondo un ideale pienamente democratico, ma si limitavano a sostituire al predominio dei nobili quello dei ricchi. Tuttavia, siccome la ricchezza può essere raggiunta da chiunque abbia capacità e voglia di lavorare, la costituzione di Solone fu un passo innanzi verso la democrazia, poiché dischiuse a tutti la possibilità di giungere alle più alte cariche.
Secondo la costituzione di Solone gli Ateniesi furono divisi in quattro classi, a seconda della ricchezza, e tutti indistintamente ebbero il diritto di voto e quello di far parte dell'assemblea generale o ecclesìa. Solo però gli appartenenti alle prime tre classi potevano entrare a far parte della bulé, che era un consiglio di quattrocento persone, incaricate di preparare i progetti di legge da sottoporre all'approvazione dell'assemblea generale; alle prime due classi poi rimanevano riservati gli uffici più alti, come l'arcontato. I componenti dell'ultima classe, di quella cioè dei più poveri, non potevano accedere ad alcuna carica pubblica, ma in compenso erano esenti dalle imposte e dall'obbligo militare.
Solone inoltre istituì, accanto all'aeropago, un tribunale popolare o elièa, che aveva il diritto di giudicare "in appello" le sentenze emesse dai tribunali ordinari: ad esso erano ammessi tutti i cittadini. Infine abolì la legge sui debiti, per la quale chi non poteva pagare i debiti contratti diventava schiavo del creditore. Scrive in proposito Plutarco:
"Prima della abolizione i poveri, oppressi dai debiti contratti con i ricchi, erano costretti a cedere a questi la sesta parte del prodotto delle loro terre; oppure, ridotti a dare in pegno le loro persone, si consegnavano nelle mani dei creditori, che li trattenevano presso di sé o li mandavano a vendere come schiavi in paesi lontani. Molti erano persino obbligati a vendere i loro figli - ciò non era vietato da alcuna legge - oppure a fuggire dalla patria per sottrarsi alla crudeltà degli usurai."
Così in alcuni versi riportati da Aristotele nella Costituzione di Atene, Solone, che fu anche poeta, esaltò la sua opera di legislatore, mettendone in rilievo la difficoltà:
"Io ho fatto ritornare ad Atene, nella patria loro fondata dagli dei, molti cittadini, più o meno giustamente venduti, alcuni dei quali ridotti all'esilio dalla terribile necessità, non parlavano nemmeno più la lingua attica tanto avevano a lungo vagato in paesi stranieri. Ho ridato la libertà ad altri che qui in patria subivano una indegna servitù e tremavano esposti al capriccio dei loro padroni. Tutto ciò ho fatto in forza di legge, unendo la costrizione alla giustizia [...]. Ho redatto leggi eguali per il buono e per il malvagio, fissando per ciascuno una retta giustizia. Che se al mio posto, fosse stato un uomo perverso e avido, non avrebbe potuto tenere a freno il popolo. Poiché se io avessi voluto secondare ciò che piaceva ai nemici del popolo, o, al contrario, ciò che gli avversari di costoro auguravano loro, avrei reso la città vedova di un gran numero di cittadini. È per questo che, impiegando tutto il mio vigore mi sono rivolto [a combattere] da tutti i lati, come un lupo in mezzo a una muta di cani."
Compiuta la sua grande opera di legislatore, Solone abbandonò per sempre la sua città recandosi in Egitto, a Cipro e in Lidia. Quivi interrogato dal ricchissimo re Creso se egli lo reputasse un uomo felice, rispose con parole che riflettono in modo esemplare le doti di equilibrio e di intelligenza proprie dei Greci (in misura particolare degli Ateniesi) e l'orgogliosa coscienza che essi avevano della loro grande superiorità sui barbari:
"Gli dei, o re, - disse - hanno dato ai Greci tutti i doni in grado moderato; e così anche la nostra saggezza è serena e familiare non superba e regale; e questo fatto, considerando le molte disgrazie che toccano agli uomini di tutti i gradi sociali, ci impedisce di diventare insolenti per il nostro benessere presente [come mostrava di essere Creso con la sua domanda] e di ammirare la felicità di quel qualunque uomo che possa, col tempo, subire mutamento [...]. Solo a colui cui la divinità mantiene la felicità fino alla morte noi diamo il nome di felice: mentre colui che è ancora a metà della sua vita, e del suo destino non lo consideriamo così al sicuro e in porto al punto da potersi proclamare vincitore, così come avviene per il lottatore che è ancora sulla pedana di combattimento."
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