18. Roma sotto il governo dei re
18.1 Romolo e il ratto delle Sabine
Nel periodo che corre dalla fondazione della città alla caduta della monarchia, Roma fu governata da una serie di re, che, secondo la leggenda, sarebbero stati sette a cominciare da Romolo.
La leggenda racconta che Romolo, per popolare la città, offrì asilo a ogni sorta di gente, anche a malfattori e a randagi, e che per formare delle famiglie stabili, poiché mancavano le donne e nessuna tribù vicina voleva, naturalmente, concederne a uomini di così dubbia origine, ricorse a uno stratagemma: indisse delle feste straordinarie e invitò i popoli vicini a prendervi parte, disponendo che, nel bel mezzo dei festeggiamenti, a un segnale convenuto i suoi Romani si gettassero sulle donne degli ospiti e le rapissero.
Un così grave affronto non mancò di scatenare la guerra, e contro Roma si formò una coalizione: a capo di essa si posero i Sabini, che erano stati i più duramente bersagliati dal temerario rapimento. Romolo, incalzato dai Sabini, fu costretto a chiudersi coi suoi nella rocca del Campidoglio, nella quale gli assedianti riuscirono a penetrare solo per il tradimento della giovane Tarpea. Costei infatti, affascinata dai monili d'oro che i Sabini portavano al braccio sinistro, si offrì di aprir loro dall'interno la porta della rocca, purché essi le donassero ciò di cui ornavano il braccio. Ma al braccio sinistro i Sabini portavano anche gli scudi; perciò, quando Tarpea si presentò per richiedere il prezzo del tradimento, essi la copersero con gli scudi fino a farne un cumulo sotto il quale la giovane rimase soffocata. Al nome di questa sciagurata giovinetta i Romani intitolarono in seguito la rupe del Campidoglio (rupe Tarpea), dalla quale venivano precipitati i traditori della patria. La leggenda prosegue narrando che le donne sabine, divenute spose dei Romani e ormai affezionate ai loro mariti, si interposero e fecero cessare la guerra: i due popoli decisero allora di fondersi in un unico popolo che sarebbe stato posto sotto il comando di Romolo e del re sabino Tito Tazio.
Dopo qualche anno, Romolo, rimasto solo a regnare per la morte del collega, diede a Roma la prima costituzione, cioè i primi ordinamenti sociali e politici, di cui parleremo più avanti; ma egli fu anche un re guerriero che seppe vincere in battaglia gli abitanti di Fidene e di Veio.
Dal giorno in cui morì, i Romani lo adorarono come un dio sotto il nome di Quirino.
La fine di Romolo fu, forse, dovuta a un assassinio perpetrato da elementi patrizi, timorosi che l'ascendente del re sulla plebe potesse nuocere ai loro privilegi. Eccone, comunque, la relazione leggendaria raccolta da Tito Livio:
"Un giorno, mentre Romolo passava in rassegna l'esercito nella pianura vicina alla palude di Capre, improvvisamente si levò una tempesta con grandissimo strepito e rumore di tuoni, e una folta nebbia lo circondò in modo tale che lo tolse alla vista dei presenti; e da allora Romolo non fu più veduto in Terra.
Tornato il cielo sereno, la gioventù romana vide che il seggio reale era vuoto e fu presa da paura e da sbigottimento; ma coloro che gli erano stati più vicini affermarono che il re era stato rapito e portato via dalla violenza della tempesta. Allora tutti incominciarono a salutare Romolo come un dio, nato da un dio, re e padre della città romana; e del pari lo pregarono di rendere felice la sua stirpe.
Così fu creduto e celebrato questo miracolo per la meraviglia avuta di un tale uomo; e a questa credenza fu accresciuta la fede per opera di un cittadino romano, Proculo Giulio; costui infatti, mentre tutta la città era in ansia per il rimpianto del suo re, entrò nel Senato e disse: "O Quiriti, Romolo, padre di questa città, sceso improvvisamente dal cielo, sul fare del giorno mi apparve innanzi, ed essendo io spaventato di tutto ciò, l'ho pregato che mi fosse lecito guardarlo; ed egli mi disse: 'Va' e fa' intendere ai Romani che gli dei vogliono che la mia Roma sia a capo di tutto il mondo: perciò si dedichino quanto più possono all'arte militare e sappiano, e così insegnino ai loro discendenti, che nessuna umana potenza può resistere alle armi romane'. Detto questo, se ne tornò in cielo".
Non è a dire quanta fede fosse prestata alle parole di costui e quanto si quietasse il rimpianto di Romolo presso la plebe e l'esercito, poiché credevano nella sua immortalità."
Torna all'indice