26.2 Trasformazione sociale
Alla compagine sociale dei primi tempi della repubblica si erano venuti aggiungendo nuovi ceti di cittadini arricchiti nei commerci, nelle speculazioni, negli appalti di imposte e di pubblici lavori, nelle forniture militari. Costoro, approfittando della loro ricchezza, aspiravano a togliere il dominio dello Stato agli aristocratici e a servirsene per proteggere i loro affari e consolidare i loro patrimoni. In ciò essi erano favoriti dalla posizione che occupavano nell'esercito, poiché, secondo la costituzione di Servio Tullio, essi venivano a far parte, per il loro censo, della classe dei cavalieri.
Al di sotto di questi nuovi ricchi si accalcava una turba di poveri e di diseredati ben diversa dalla primitiva plebe romana assuefatta al lavoro e alla fatica. All'Urbe, avviata ormai a diventare il caput mundi (la capitale del mondo), accorrevano da paesi vicini e lontani avventurieri e spostati, gente inquieta e senza mestiere, perduta nell'ozio e nei vizi o abbrutita dalla miseria e dalla sventura.
Ma soprattutto arrivavano a frotte i contadini e i piccoli proprietari, che abbandonavano le loro terre. Nelle campagne, infatti, la vita diventava ogni giorno più difficile, sia per la concorrenza che i prodotti dei paesi conquistati facevano a quelli dell'agricoltura romana, sia per le frequenti leve militari. I contadini, restando a lungo sotto le armi, finivano col disamorarsi del lavoro dei campi e col trasformarsi in soldati di mestiere. Al termine del servizio poi preferivano oziare nei bassifondi cittadini piuttosto che riassoggettarsi alla fatica di lavorare la terra.
I campi incolti divenivano così preda di ingordi speculatori che mettevano insieme latifondi immensi, affidandone la scarsa coltivazione alle braccia degli schiavi.
Il rammarico per questa situazione così incresciosa rimase a lungo nei Romani più tradizionalisti, come mostra questa pagina di Plinio il Vecchio tratta dalla Storia Naturale, opera scritta nel primo secolo della nostra era:
"I Romani una volta giudicavano cosa biasimevole il coltivar male la terra e reputavano, come riferisce Catone, elogio grandissimo quello di essere chiamati buoni agricoltori. Anzi, ogni distinzione e ogni onore civico aveva origine in ciò: e le tribù più pregiate erano le rurali, [...] mentre si tacciavano di infingarde le tribù urbane, e si stimava cosa vergognosa l'esser trasferiti da quelle a queste. Finché durarono simili usanze, non solo i raccolti del territorio italico furono sufficienti per tutti i cittadini, senza che nessuna delle province dovesse approvvigionare la penisola, ma anche fu incredibile il buon mercato delle derrate. Quale era dunque la cagione di tanta ubertà? Era che allora persino i generali d'esercito coltivavano i campi con le proprie mani, in modo che si può credere che la terra stessa quasi gioisse d'essere lavorata da un vomero mosso dalle mani di chi aveva meritato l'onore del trionfo. E difatti, essi non ponevano minor cura nei dirigere le guerre che nel fare le seminagioni, e, nel tracciare i solchi, impiegavano la medesima diligenza che nel disporre gli accampamenti."
Le nuove plebi cittadine torbide e oziose vivevano dei bottini di guerra, delle pubbliche elargizioni, dei favori dei potenti e degli uomini politici; spesso anzi durante le elezioni dei magistrati vendevano i loro voti, diventavano cioè clienti dei personaggi più in vista della città. In tal modo si riducevano a strumento venale nelle mani di ambiziosi e di sobillatori.
Una riforma dunque si imponeva, una riforma che attirasse con la speranza di una vita più dignitosa verso la campagna la massa inquieta e miserabile della città e sanasse un po' per volta non solo le piaghe materiali, ma anche quelle morali, restituendo dignità e consistenza alla classe rurale.
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