17.6 Il culto e i sacerdoti
Il culto degli dei comportava di solito preghiere, libagioni, offerte di primizie; ma talvolta anche sacrifici di animali i quali, si riteneva, fossero in particolar modo graditi agli dei; perciò, in certe occasioni, alcuni sacerdoti, con la testa coperta da un velo, sacrificavano sugli altari vittime di varie specie (buoi, pecore, polli, maiali), le cui carni venivano distribuite tra i fedeli, dopo che questi si erano purificati con l'acqua lustrale.
Ecco nel VI canto dell'Eneide di Virgilio un esempio di sacrificio alle divinità infernali compiuto da Enea e dalla Sibilla Cumana:
"Qui prima quattro giovenchi di nero mantello collocò la Sibilla e vino versò sulle fronti, e un ciuffo di peli strappati in mezzo alle corna arse sul fuoco sacro, primizia d'offerta, con voce alta invocando Ecate [nome infernale di Diana] nel cielo e nell'Erebo [inferno] grande. Immergono altri coltelli e il tiepido sangue accolgono in tazze. Di sua propria mano una pecora nera delle Furie alla madre [la notte] e alla grande sorella [la Terra] scanna Enea con la spada, e sterile vacca a Proserpina. Poi per lo Stigio sovrano [Plutone] consacra are notturne, intere sopra le fiamme pone dei tori le viscere, pingue olio versando, mentre ardon le offerte."
I sacrifici erano preceduti o accompagnati da formule sacrali; Catone, nel De Agricoltura, riporta la formula pronunciata da un contadino nell'atto di far compiere il giro del suo campo a tre animali - un maiale, una pecora e un vitello - che intende sacrificare al dio Marte allo scopo di ottenere benevolenza per sé e per la sua famiglia.
"Divo Marte, ti prego, ti domando, di essere benevolo, propizio a me, alla mia casa e ai miei famigliari; per ottenere ciò ho fatto compiere il giro dei miei campi e della mia proprietà ai tre animali destinati al sacrificio; perché tu arresti, respinga e volga altrove le malattie visibili e invisibili, la carestia, la devastazione, le calamità e le intemperie; perché tu permetta ai miei prodotti, cereali, vigne, arbusti, di crescere e di giungere a un buon risultato; perché tu mantenga sani e salvi pastori e greggi e dia a me, alla mia casa e ai famigliari miei sorte felice e buona salute."
Le maggiori festività religiose, connesse alle vicende stagionali, erano gli Ambarvali, che si celebravano in primavera per impetrare dagli dei raccolti abbondanti e i Saturnali, che si svolgevano in dicembre.
La religione romana fu nel complesso molto formalistica, fatta cioè di atti esteriori piuttosto che di interna disposizione dell'animo, e perciò ebbe uno scarso contenuto morale. Dagli Etruschi essa aveva ereditato lo spirito superstizioso e le pratiche della divinazione e dei presagi, alle quali attendevano appositi sacerdoti detti Àuguri; dai loro responsi i Romani facevano dipendere ogni decisione nelle circostanze più importanti della vita.
Tra i presagi più temibili figuravano i cosiddetti "prodigi" che si riteneva fossero l'annuncio di gravi avvenimenti. In uno dei più drammatici momenti della storia di Roma - l'invasione di Annibale di cui parleremo più avanti - si erano verificati, secondo Tito Livio, i seguenti prodigi ammonitori:
"Ad alcuni soldati si erano infilati tra le mani i giavellotti; delle pietre ardenti erano cadute dal cielo; degli scudi erano comparsi nell'aria e il sole si era scontrato con la luna; spighe insanguinate erano andate a cadere nelle ceste dei mietitori."
Oltre agli Àuguri, vennero creati altri sacerdoti riuniti in collegi, dei quali i più influenti furono gli Arvàli, i Flàmini, i Feciàli, i Salii e le Vestali. Sopra tutti stava il Collegio dei Pontefici, incaricato della sorveglianza generale dei culti; esso era presieduto dal Pontefice Massimo, la cui autorità era una delle più estese di Roma.
I sacerdoti non formavano una casta chiusa, segregata dal resto della popolazione; essi erano considerati dei magistrati dello Stato, alla stessa stregua dei cittadini che coprivano cariche pubbliche. L'ordinamento religioso e quello statale erano fusi insieme e questa coincidenza fu uno dei più grandi fattori di forza dell'antica Roma.
"I nostri antenati - scrive Cicerone - non hanno mai avuto un'ispirazione migliore di quando hanno deciso che fossero le medesime persone a dirigere la religione e a governare la Repubblica. In tal modo magistrati e pontefici nel coprire le loro cariche con saggezza si intendono bene, per salvare lo Stato."
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