31. Ottaviano Augusto fonda l'impero
31.1 Governo di Ottaviano
Dopo la vittoria, Ottaviano agì con moderazione e abilità. Per non offendere i suoi concittadini evitò di esercitare il potere nella veste di monarca assoluto di tipo orientale; lasciò che il Senato e i comizi conservassero le loro prerogative, limitandosi a sorvegliare che le decisioni risultassero in ogni circostanza conformi ai suoi voleri.
Raccolse nelle sue mani le magistrature supreme: fu nello stesso tempo principe del Senato, capo dell'esercito, console, proconsole, censore, pretore, tribuno della plebe, pontefice massimo; ma volle che queste cariche gli fossero sempre conferite legalmente e legalmente rinnovate. Così egli realizzando il disegno di Cesare, trasformò lo Stato romano in una monarchia, lasciando che le forme repubblicane continuassero a sopravvivere come un semplice involucro.
Questo sistema fu l'impero così chiamato dal titolo di imperatore attribuitogli in perpetuo dal Senato: titolo però che egli tenne solo per i popoli delle province, perché a Roma preferì fregiarsi dell'appellativo di princeps, cioè di primo cittadino anche per non urtare i vecchi fautori della repubblica. Nel 27 a. C. gli fu conferito il titolo di Augusto, che era l'attributo degli dei e delle cose divine.
Tanti onori non smossero Augusto dalla abituale modestia e sobrietà: affabile con tutti continuò a vestire in modo semplice e ad abitare una casa senza sfarzo. Così, smorzando la suscettibilità dei suoi concittadini e accaparrandosene le simpatie, egli poté condurre a termine, senza bruschi trapassi, l'evoluzione dello Stato verso quelle forme e quei compiti nuovi che Cesare aveva indicati.
Degli accorgimenti da lui usati per smorzare le opposizioni è una eco questa pagina di Plutarco:
"Ebbe sempre in orrore il nome di padrone, nome che considerava come un'ingiuria e un obbrobrio. Un giorno che un attore in teatro, avendo pronunciate le parole "Oh il padrone giusto e buono!" suscitò gli applausi fragorosi degli spettatori, represse immediatamente col gesto e con lo sguardo le indecenti adulazioni e, il giorno seguente, le biasimò in un editto severissimo; da allora proibì agli stessi suoi figli e nipoti che lo chiamassero padrone, sia sul serio, sia per scherzo.
Nei giorni delle udienze generali, ammetteva anche la plebe e riceveva con tanta buona grazia le richieste dei visitatori che una volta rimproverò, celiando, ad un tale di presentargli una supplica con la stessa timidità con la quale avrebbe offerto una moneta a un elefante. In occasione delle sedute del Senato, non salutava mai i senatori se non nella curia e dopo che si fossero seduti rivolgendosi loro uno per uno con il loro nome senza che nessuno glielo suggerisse; quando se ne andava i senatori restavano seduti e gli porgevano il saluto alla stessa maniera."
Ma c'erano anche gli antichi oppositori che vedevano le cose in modo completamente diverso.
Tacito, per esempio, nel I libro degli Annali scrive:
"Quando [Augusto] ebbe sedotto i soldati con i doni, il popolo con le distribuzioni di grano e il mondo intero con le dolcezze della pace, cominciò a elevarsi grado a grado e ad avocare a sé le prerogative del Senato, dei magistrati, della legge. Nessuno gli resisteva; i più animosi erano caduti sui campi di battaglia o vittime della proscrizione; i nobili, che ancora rimanevano si mostravano tanto più premurosi di servire quanto più la servitù li innalzava nella ricchezza e negli onori; e, dato che il nuovo Stato aveva aumentata la loro potenza, preferivano il presente con la sua sicurezza, al passato con i suoi pericoli. Anche le province, dal canto loro, non provavano ripugnanza per il nuovo ordine di cose, [poiché sul finire della repubblica] esse vedevano di malocchio il governo del Senato e del popolo [romano] a causa delle rivalità dei grandi e dell'avarizia dei magistrati e non trovavano nelle leggi che un aiuto inefficace, di cui la violenza, l'intrigo e il denaro turbavano l'azione. [...]"
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