28.6 Giulio Cesare
Cesare, nato a Roma nel 100 a. C. dalla gens Iulia, che si vantava di discendere da Iulo, figlio di Enea, per quanto di nobile stirpe, era diventato il capo del partito democratico. Ma, a differenza di Mario, che aveva alimentato la propria popolarità ostentando maniere rudi e compiacendosi della propria origine plebea, Cesare sapeva dominare le folle conservando la superiorità che gli derivava dal suo ingegno straordinario, dalla suadente parola, dalla signorile semplicità dei modi. Egli sapeva a tempo opportuno apparire energico o moderato. Per di più era uomo di vasto sapere che aveva compiuto un soggiorno in Oriente per perfezionare la propria cultura. Non gli mancava dunque nessuna delle doti occorrenti per risolvere la crisi dell'agonizzante repubblica e riordinare lo Stato su nuove basi.
L'edificio politico che Cesare si proponeva di erigere non poteva essere che una forma di monarchia: l'impero. Solo con un tale sistema Cesare riteneva di poter pacificare le classi, uguagliare i cittadini davanti alla legge, sottrarre lo Stato all'esclusiva influenza del ceto aristocratico, e risolvere infine l'antagonismo fra l'Italia e le province. Per raggiungere questi risultati bisognava neutralizzare l'opposizione del Senato; a tale scopo però non servivano bande disordinate di insorti guidati da uomini screditati come Catilina, ma occorrevano un largo consenso popolare e un esercito disciplinato e forte.
Quando Cesare entrò a far parte del triumvirato, disponeva già della prima delle due condizioni, poiché dietro di lui era il forte partito democratico; in seguito all'accordo con Crasso e Pompeo egli riuscì ad avere in pugno anche un esercito che seppe in breve tempo entusiasmare con fruttuose imprese e con atti di valore personale. Eccone due esempi raccontati da Valerio Massimo:
"Quando il divo Giulio, chiarissimo ornamento dei cieli e schiettissimo esempio di virtù dovette combattere coi Nervii in Gallia, vedendo che in una schiera i suoi, per la gran moltitudine e ferocia dei nemici, cominciavano a ripiegare, tolse lo scudo di mano a uno che si comportava da codardo e, copertosi con quello, si serrò sotto i nemici con tanto impeto e gagliardia, che non solo ridiede animo a tutto l'esercito ma riguadagnò con quel divino ardore il favore della fortuna che già sembrava volerlo abbandonare.
In Africa, combattendo contro i Pompeiani, prese per la gola quello che portava l'insegna della legione marzia, mentre stava per darsi alla fuga, e volgendogli il collo gli mostrò i nemici con la mano. "Dove vuoi andare?" gli disse "là sono i nemici!" In tal modo Cesare fermò colui che stava per fuggire e con le sue parole rincuorò tutto l'esercito."
Dopo un anno di consolato, Cesare si fece assegnare per cinque anni, in qualità di proconsole, il governo delle province della Gallia Cisalpina e Narbonese, e dell'Illiria.
Degli altri due triumviri, l'uno, Pompeo, rimase a Roma, l'altro, Crasso, dopo qualche anno partì per l'Oriente, dove nel 53 a. C. perdette la vita guerreggiando contro i Parti.
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