20.9 La sottomissione del Lazio
[Questa pagina mostra le difficoltà che Roma dovette superare per pacificare il Lazio e per estendere a tutti i suoi abitanti liberi la cittadinanza romana: rancore dei vinti e orgogliosa gelosia dei Romani. La progressiva estensione della parità dei diritti a tutti i popoli conquistati si completò soltanto sotto l'impero e costituì uno dei maggiori meriti politici e civili guadagnati da Roma nel mondo antico.]
Il Lazio era stato sottomesso; di quaranta piccoli popoli che l'abitavano, Roma ne aveva sterminata la metà; alcuni aveva spogliati delle terre, ad altri aveva dato il titolo di alleati. Nel 340 a. C. questi s'accorsero che la alleanza era tutto a loro detrimento, che bisognava obbedire in tutto e che erano condannati a prodigare ogni anno il loro sangue e il loro denaro a tutto vantaggio di Roma. Perciò si coalizzarono; il loro capo Annio formulò così i loro reclami davanti al Senato di Roma: "Che ci si dia l'uguaglianza; abbiamo le stesse leggi, formiamo con voi uno Stato, una civitas; abbiamo un solo nome, e che ci si chiami tutti ugualmente Romani". Annio enunciava così, nell'anno 340, il voto che tutti i popoli dell'impero concepirono uno dopo l'altro e che doveva essere completamente realizzato solo dopo cinque secoli e mezzo. Allora però, un pensiero simile era nuovo ed inatteso; i Romani lo dichiararono mostruoso e criminale; era, infatti, contrario alla vecchia religione ed al vecchio diritto della città. Il console Manlio rispose che, se caso mai fosse ciò avvenuto, se simile proposta fosse stata accolta, egli console, avrebbe ucciso con le sue mani il primo latino che sarebbe venuto a sedere in Senato; poi, rivolgendosi verso l'altare, chiamò il dio a testimonio, dicendo: "Hai inteso, o Giove, le empie parole che sono uscite di bocca a questo uomo! Potrai tu tollerare, o dio, che uno straniero segga nel tuo tempio santo come senatore o come console?" Manlio manifestava, così, il vecchio sentimento di repulsione che divideva il cittadino dallo straniero. Egli era la voce dell'antica legge religiosa, che prescriveva che lo straniero fosse detestato dagli uomini, perché era maledetto dagli dei della città. Pareva impossibile che un latino potesse essere senatore, perché il luogo di riunione del Senato era un tempio e gli dei romani non potevano soffrire nel loro santuario la presenza di uno straniero. Ne seguì la guerra; i Latini vinti fecero atto di sottomissione [deditio], cioè abbandonarono ai Romani le città, i culti, le leggi, le terre. La loro posizione divenne crudele. Un console disse in Senato: "Che, se non si voleva che Roma fosse circondata da un vasto deserto, occorreva regolare la sorte dei Latini con qualche clemenza...". [Solo un secolo dopo però Roma si rassegnò...] a dividere con lo straniero la religione, il governo, le leggi; soltanto però i suoi favori erano individuali e non si riferivano a città intere, ma ad alcuni uomini di ciascuna di esse. Così Roma ammetteva nel suo seno quanto di migliore, di più ricco e di più stimato, ci fosse nel Lazio. Il diritto di cittadinanza diventò allora prezioso [...].
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