21.5 La guerra tarantina
Le terre dell'Italia meridionale non ancora cadute sotto il dominio dei Romani erano abitate da varie popolazioni italiche, fra le quali i Lucani e i Bruzzi, e dalle popolazioni delle colonie greche (prima fra queste la fiorente città di Taranto).
Sotto la minaccia di Roma, i Tarantini, ricchi ma militarmente sprovveduti, chiesero l'aiuto di Pirro, re dell'Epiro: ebbe così inizio la guerra tarantina (282-272 a. C.).
Pirro, guerriero valoroso e cavalleresco, era l'unico nemico temibile che i Romani potessero trovare in quel momento; approdando in Italia, egli accarezzava il sogno di diventare il conquistatore dell'Occidente, come Alessandro il Macedone lo era stato dell'Oriente. L'esercito epirota si componeva di ventimila fanti, di cinquemila cavalieri e di venti elefanti, che si possono considerare i carri armati dell'antichità. Terrorizzati dagli elefanti e dalla nuova tattica di guerra, i Romani si lasciarono battere a Eraclea e ad Ascoli Satriano (280 a. C.); ma nel 275 a. C., nella battaglia di Malevento (detta da allora Benevento), Curio Dentato riuscì a vincere l'Epirota, togliendogli per sempre la velleità di diventare l'Alessandro dell'Occidente. Narra la leggenda che Pirro, prima che si verificasse la sconfitta definitiva, impensierito per le gravi perdite che gli costavano le sue vittorie inconcludenti (le proverbiali vittorie di Pirro), avesse cercato invano di indurre i Romani alla pace. Alle sollecitazioni di Cinea, ambasciatore del re, il vecchio e cieco Appio Claudio aveva dato in Senato una fiera e scoraggiante risposta: "Esca Pirro dall'Italia e poi tratteremo la pace!" Né meno dignitoso era stato il comportamento del console Caio Fabrizio, che aveva rifiutato i preziosissimi doni inviatigli da Pirro affinché facesse opera di persuasione in Senato a favore delle sue offerte di pace.
Dopo la battaglia di Benevento lo sfortunato condottiero epirota, ripassò il mare ritirandosi nel suo paese. Taranto dovette rassegnarsi ad accettare la dominazione romana, alla quale già si erano piegate tutte le sue consorelle greche fino allo Stretto di Messina.
Con l'assoggettamento dell'Italia meridionale la conquista della penisola poteva dirsi conclusa; ma la vittoria delle armi romane non avrebbe avuto effetti duraturi se Roma non avesse saputo consolidare la propria supremazia col senno dei suoi governanti e con la perizia della sua amministrazione.
La formula impiegata per l'annessione di un popolo vinto rimase sempre la stessa dall'epoca dei re. Ecco la formula nel racconto che Tito Livio fa della dedizione della città sabina di Collatia a km 15 da Roma:
Collatia e il territorio situato al di quà di essa furono tolti ai Sabini. Ecco, da quanto sappiamo dei nostri documenti, in che modo avvenne la dedizione di Collatia e in quali termini. Il re domandò: "Siete voi rappresentanti e mandatari del popolo di Collatia, delegati a consegnare a noi il popolo della città e voi stessi?"
"Sì." "Ha il popolo di Collatia la facoltà di disporre di se stesso?" "Sì." "Voi consegnate, voi stessi, il popolo collatino, la città, la campagna, le acque, i confini, i templi, le cose nobili, e tutte quelle divine ed umane in potere mio e in quello del popolo romano?" "Sì, noi ci consegnamo." "Ed io, da parte mia, vi ricevo."
Torna all'indice