23.7 La marcia di Annibale
Annibale, lasciato suo fratello Asdrubale (da non confondersi con l'altro Asdrubale più sopra ricordato) al comando delle truppe di Spagna, e l'altro fratello, Magone, a capo di quelle che dovevano assicurare le linee di comunicazione, valicò i Pirenei con 50.000 fanti, 20.000 cavalieri e alcune decine di elefanti e si avviò alle Alpi respingendo durante la marcia gli attacchi delle tribù celtiche locali, avide di bottino.
La traversata delle Alpi avvenuta nel 218 a. C., (pare per il passo del Monginevro), è senza dubbio la più grande impresa militare che la storia ricordi.
Eccone la narrazione fatta da Polibio:
"Dopo aver compiuto la salita fra mille pericoli, il nono giorno Annibale raggiunse la sommità del giogo e per due giorni fece riposare i soldati raccogliendo gli sbandati.
Sul far del terzo giorno l'esercito cominciò pigramente l'avanzata, affaticandosi nella neve, e Annibale, raggiunto un promontorio, da cui la vista spaziava largamente, cercò di rincuorare i soldati mostrando loro dall'alto l'Italia e, ai piedi dei monti, la pianura del Po, esortandoli a superare non solo le mura d'Italia, ma anche quelle della stessa Roma, che con poche battaglie avrebbero potuto conquistare.
Durante la discesa si dovettero superare aspre difficoltà: il sentiero era stretto e dirupato, la neve impediva di veder bene dove si metteva il piede e perciò era facile uscir di strada, sdrucciolare e precipitare nei burroni. Arrivati a una stretta, dove il passaggio era precluso da una vastissima frana, i Cartaginesi furono presi da un grande abbattimento poiché non potevano far avanzare né le salmerie né gli elefanti. Allora Annibale ordinò di fermarsi e di porre il campo ai margini della frana. Poi, sgombrata la neve, fece aprire dai suoi soldati, a prezzo di immense fatiche, un varco nei baratro, attraverso il quale, dopo un giorno di continui sforzi, riuscì a far passare i cavalli e i giumenti per farli rifocillare nei pascoli sottostanti. I soldati, intanto, dandosi il cambio, lavorarono per tre giorni a riattare la strada, in modo da far proseguire gli elefanti che, non avendo trovato nulla da mangiare fra quelle nevi, erano esausti per la fame.
Dopo altri tre giorni di marcia, Annibale raggiunse finalmente la pianura; aveva perduto nella traversata delle Alpi moltissimi soldati e animali, travolti dai torrenti, inghiottiti dai precipizi o uccisi dalle popolazioni ostili. I superstiti sommavano a dodicimila Africani, ottomila Spagnoli e [...] seimila cavalli."
Non appena le avanguardie di Annibale sbucarono dalle gole alpine, i Galli della Valle Padana, com'era nelle previsioni, si sollevarono e molti di essi andarono a ingrossare l'esercito punico. Il console Publio Cornelio Scipione cercò di sbarrare il passo all'invasore alla confluenza del Ticino col Po, ma fu sanguinosamente sconfitto; anche il suo collega Sempronio, partito dalla Sicilia e congiuntosi dopo quaranta giorni di marce forzate con i resti del suo esercito sulla riva della Trebbia fu a sua volta battuto. Di tutte le città dell'alta Italia solo Piacenza e Cremona rimasero fedeli a Roma.
Nella primavera dell'anno 217 un nuovo esercito romano, al comando del console Caio Flaminio, venne distrutto da Annibale, presso il Lago Trasimeno, dopo tre ore di battaglia nella fitta nebbia. Quindicimila furono i caduti (fra cui il console stesso) e quindicimila i prigionieri. Qualche giorno dopo, quattromila cavalieri romani, mandati in soccorso dall'altro console Gneo Servilio, subirono la stessa tragica sorte. Durante tutto il 217 a. C. Annibale scorrazzò per l'Italia centrale cercando di ottenervi lo stesso successo politico che gli aveva arriso nell'Alta Italia con i Galli; ma le popolazioni italiche rimasero fedeli a Roma: segno evidente della solidità dell'unificazione che la politica romana aveva saputo attuare nella penisola in pochi decenni.
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