32.7 Tito
Durante il regno di Tito (79-81 d. C.) succeduto a Vespasiano andarono sepolte nel 79 d. C. sotto le lave del Vesuvio le fiorenti città di Ercolano, Pompei e Stabia. Tanto fulminea e inaspettata si verificò la sciagura che la vita varia e operosa di quel lontano mondò non ebbe tempo di interrompersi; così oggi, attraverso gli scavi noi la vediamo riapparire quasi intatta alla luce del sole.
Tra le vittime dell'eruzione fu il naturalista Plinio il Vecchio accorso sul posto per portare aiuto, con delle navi, alle vittime e per curiosità scientifica.
Nella lettera del nipote Plinio il Giovane all'amico Tacito in cui dà notizia della morte dello zio troviamo anche la testimonianza fedele e diretta dell'inusitato fenomeno:
"Plinio [il Vecchio] era a Miseno che comandava in persona la flotta. Al primo di novembre, verso le ore sette, sua madre lo avverte ch'era apparsa una nuvola di forma e di grandezza insolite, che osservata da lungi non si discerneva bene da qual monte sorgesse [si seppe poi che veniva dal Vesuvio]; una nuvola di tal forma e sembianza che nessun albero l'avrebbe meglio espressa di un pino.
Poiché ergendosi come su un tronco altissimo si allargava in una ramificazione [a ombrello]; io ritengo che sollevata da un improvviso vento, si dileguasse poi nell'aria per il sostare di esso o perché vinta dal suo stesso peso, mostrandosi ora lorda e macchiata, secondo che s'impregnava di terra e di cenere. [...]
Plinio [il Vecchio] fa uscire le quadriremi, vi si imbarca lui stesso per recare aiuto alla gente di cui formicolava quell'amena spiaggia, dirigendosi colà donde gli altri fuggivano. In mezzo al pericolo regola il corso e dirige il timone con sì impavido animo da poter dettare e notare tutti i movimenti e gli aspetti di quel disastro, come si rappresentava agli occhi. Già la cenere cadeva sulle navi, tanto più calda e fitta, quanto queste avanzavano; e anche pomici e pietre nere riarse e stritolate dal fuoco. [...] Egli esitò alquanto se dovesse tornare indietro, poi disse al pilota, che a ciò lo consigliava "La fortuna aiuta gli audaci, andiamo da Pomponiano".
Questi [un amico di Piinio] era a Stabia, [...] dove il pericolo non era ancora imminente. [...] Mio zio abbraccia l'amico tremante lo rincuora, lo conforta; e per alleviare l'agitazione di lui, con la calma sua propria, vuol essere condotto al bagno e, poi, lavatosi, si asside a mensa e pranza tutto allegro, o, ciò che conta di più, in sembianza di allegro. Frattanto da più parti del Vesuvio risplendevano fiamme ed incendi in contrasto con l'oscurità della notte. Lo zio [...] si pose a dormire [...] ma nel cortile antistante al suo appartamento si andava accumulando tanta di quella cenere, mista a pietre che per poco che fosse rimasto nella stanza non avrebbe potuto più uscirne.
Risvegliato esce e si consulta con Pomponiano e con gli altri che non avevano chiuso occhio, se convenisse restare a casa od uscire all'aperto, dato che i muri tremavano per le frequenti e lunghe scosse e minacciavano, qua e là, di cadere; d'altra parte uscendo all'aperto c'era il pericolo della pioggia di pietre, per quanto piccole e consunte. Confrontati i pericoli, fu scelta la seconda alternativa, prevalendo in Plinio una più matura riflessione, sugli altri un più forte timore. Mettono dei guanciali sul capo, stringendoli con fazzoletti, in modo da fare da schermo a ciò che cadeva dall'alto. Già altrove spuntava il giorno, ma colà era notte, una notte più scura e fitta di ogni altra, benché rotta da fiamme e da lampi. Recatosi sul lido, per vedere se fosse il caso di riprendere il mare, e constatato che questo era ancora procelloso e contrario, si butta su un povero lenzuolo e domanda per due volte di bere dell'acqua. Intanto le fiamme fanno sì che gli altri fuggano; egli si risente e, mentre fa l'atto di levarsi, sostenuto da due servi, spira nel momento stesso, io penso, per il crescente vapore che gli impedì il respiro e gli serrò lo stomaco, già debole per natura, stretto e soggetto a frequente bruciore."
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