10.5 Riforma di Clistene
Il principale artefice di essa fu l'arconte Clistene (507 a. C.). Per prima cosa egli abolì la distinzione dei cittadini in classi e li suddivise in demi (o rioni), raccolti in dieci tribù, senza far differenza tra ricchi e poveri; i componenti di ciascuna tribù eleggevano un ugual numero di membri dell'assemblea popolare, che in totale risultava composta di cinquemila cittadini. Poi istituì il consiglio dei cinquecento (la bulé di Solone accresciuta di cento membri), di cui ogni tribù eleggeva cinquanta rappresentanti. I componenti del consiglio dei cinquecento avevano il compito di fare le leggi e di trattare i più importanti affari dello Stato, alternandosi nella carica a gruppi di cinquanta per volta per un periodo di poco più di un mese (detto pritanìa). Con tale riforma restò affievolita la potenza degli arconti e quella delle classi più elevate, nelle quali essi erano generalmente reclutati. Anche nel campo militare gli arconti dovettero rassegnarsi a dividere il comando dell'esercito tra i dieci strateghi, che erano generali eletti dall'assemblea in numero di uno per ogni tribù.
Clistene inoltre fornì all'assemblea popolare un'arma efficace per scongiurare la minaccia di nuove tirannidi: la facoltà cioè di esiliare quei cittadini che divenissero troppo potenti e quindi pericolosi. Una tale condanna veniva chiamata ostracismo perché i membri dell'assemblea dovevano scrivere su un coccio (òstracon) il nome di colui che volevano esiliare.
Con la riforma di Clistene la lotta del popolo ateniese contro gli originari privilegi della classe aristocratica poté dirsi conclusa con la vittoria della democrazia.
La democrazia ateniese - come del resto qualunque altro ordinamento simile del mondo antico - si mantenne però sempre diversa da quella moderna; in essa l'eguaglianza dei diritti politici e civili era riservata ai soli cittadini il cui numero era ben lontano dal coincidere con l'intera popolazione; ne restavano esclusi i meteci ossia gli oriundi stranieri (per lo più dediti ai commerci), le donne e gli schiavi.
A questi ultimi nemmeno i fautori delle più ardite riforme sociali erano disposti a riconoscere alcun diritto.
Eccone un esempio fornito da Aristofane, per bocca di un personaggio di una sua commedia - un'intellettuale comunista - che così presenta il suo programma riformatore:
"Le sostanze in comune porre, dico io, conviene, e che ognun ne partecipi, ne ritragga il suo vitto. Né vo' che uno a palate quattrini abbia, un sia guitto; questo abbia terre a iosa, questo si vegga al fianco una folla di schiavi, quello non n'abbia uno neppur per fargli coda, ma la vita accomuno di tutti, ora ed eguali diritti per tutti io vo'!"
Ma a chi le chiede su quali spalle dovrà gravare il peso del lavoro: "Su quelle degli schiavi" risponde.
Di questi schiavi, considerati come un dato non modificabile della struttura economico-sociale del mondo greco, Senofonte indica quale, a suo avviso, sia il metodo migliore per governarli, metodo che calpesta la dignità umana e non onora certo la democrazia:
"Il metodo di educazione, che sembra convenire alle bestie in particolare, è un mezzo buonissimo per insegnare l'obbedienza agli schiavi. Potrai ottenere molto da essi soddisfacendo il loro stomaco dopo averne sollecitato gli appetiti. Coloro che posseggono dell'amor proprio si spronano con i complimenti: alcune nature hanno sete di complimenti proprio come altre hanno desiderio di cibo e di bevande. Tutti questi procedimenti, che uso io stesso quando mi propongo di rendere più docile la gente, li insegno a coloro che intendo porre al governo degli schiavi; le vesti e le calzature che fornisco agli schiavi non sono tutte della stessa qualità; alcune sono meno buone, altre migliori. Così io posso ricompensare gli operai più capaci con le migliori e riservare le meno buone ai meno capaci. Quanto a quelli che sono onesti non solamente per i vantaggi che loro procura la onestà, ma per il desiderio di ricevere lodi da me, dal momento che me ne accorgo, li tratto da uomini liberi; non mi accontento di arricchirli ma lo onoro come uomini dabbene."
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